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COL CUORE IN ITALIA

Letture

L´OMBRA NELLA BOTTIGLIA

L´OMBRA NELLA  BOTTIGLIA Primavera, Aprile. Anno imprecisato.

Il cielo era magnifico, libero da nuvole al centro, velato appena nella parte inferiore da uno strato sottile di polvere luccicante. Stelle a grappoli, e onde lievi a levigare il grande cristallo: la luna si cullava tra gli scogli, e foglie s’agitavano, tentennavano, percorse da refoli di vento sottile.
Luce lieve, onde, piccole e schiumose, suoni ignoti si liberavano nell’aria colma di profumi, e la spiaggia appariva desolata e silenziosa. Solo il mio dolore, quello sentii scorrere, una sensazione nuova, e la consapevolezza che senza di lei avrei perduto la mia essenza, io smarrito, io follia, l’alieno.
Ricordai con nitore gli ultimi istanti della conversazione, il viso di lei, quegli occhi sinceri e profondi, il suo passo leggiadro, le mani piccole e ben curate. Sentii il suo profumo, agonizzai nel respiro del suo cuore. Il cielo era ancora magnifico, e il vespero si diluiva nelle pozzanghere, subito dopo la pioggia, quella pioggia lenta che martoriava la spiaggia e feriva a morte l’anima mia.
I pensieri oscillavano nel vuoto, istanti, l’addio, e ancora i suoi occhi neri profondi e le sue parole intrise di nulla, cattivi presagi, già all’inizio, mentre le sue labbra si muovevano ritmicamente, sembravano fuochi fatui, ed io non ascoltavo, inseguivo invece il volo delle rondini nell’aria umida e malaticcia.
“È finita: non posso continuare ad amarti”, disse lei, allungando lo sguardo oltre l’orizzonte.
Io immobile, essere fragile, cristallo che si frantuma e si ricompone, io adesso ombra a ridosso dell’ombra, parvenza, lacrima del cielo.
Riuscii a sussurrare qualche frase distratta, per tentare di farla ragionare, sperando che lei cambiasse idea, ed intanto osservavo i suoi capelli frammentarsi tra le onde, il suo viso colare dalle rocce, il cuore esploderle tra i seni, ed io immobile, lontano in uno spazio racchiuso nell’evanescenza, dentro parole senza significato, ancora solo, scia di luce in agonia, acquerello.
“Io ti amo, Annette: non posso vivere senza di te”.
Lei rimase impassibile, con gli occhi persi nel vuoto, raccolta dentro una veste attillata, mentre un pezzo di cielo svaniva nel il blu cobalto del mare, e la mia anima delirava, occhi accesi e spettri nel cuore.
“Sento una nuova melodia, musica, amore, nuovo e fecondo respiro, un’altra emozione oltre, oltre il tuo viso: non posso più amarti”, continuò lei, sbattendo le palpebre.
“Ma…”, risposi, mentre da lontano l’oceano brillava, al centro, a cento passi dal molo e le onde rincorrevano i gabbiani, per l’aria salivano, sembravano spruzzi di luce in miniatura.
“Non c’è sentore d’eternità nelle passioni, e ogni anelito è sogno di carta, desiderio destinato a perire, incertezza, falsità, ombra a ridosso dell’ombra: l’amore si svela, s’allunga tra le ali del vento, diviene delirio, poi al tramonto s’occulta e scompare. Nulla è certo nell’incertezza, nulla che possa durare per l’eternità, tutto è destinato a perire, frammento, goccia di rugiada che al mattino svanisce, quando il primo raggio di sole con forza ne dissolve la traccia.
“Annette, ti prego”, balbettai con gli occhi colmi di lacrime.
“È finita, è tempo che io regali l’altra metà del mio cuore. Ancora una volta: addio”.

Rimasi immobile, luna e luci oramai svanite, la sera che si cullava, il dolore sentii scivolare nel cuore, e il vento vidi alitare, mentre a grappoli le stelle già depositavano luce tremula, e gocce sulla sabbia smarrivano la traccia.
“Annette!” gridai, nel disperato e vano tentativo di farle cambiare idea.
Un oceano di silenzio oltre il molo, qualche barca, e il cielo intanto fagocitava le ultime stelle, e l’uragano s’approssimava, gonfio il mio cuore di tragedia.
“Non c’è sentore d’eternità nelle passione”, gridò lei da lontano, ed io ad osservare le onde tramutarsi in angeli e gli angeli oscillare e frantumarsi e riapparire, lontano, in un luogo che sogno non è, né realtà, un striscia d’incertezza che spesso si confonde, ci confonde, ci turba.
L’eco di una voce solitaria, un gabbiano, l’urlo del vento, poi l’uragano.
Rincasai quando era notte fonda. Dopo il canneto il fiume, qualche stella sospesa sugli steli, il mio dolore e la stradina illuminata, poi aprii la porta, accesi la luce e mi buttai sul divano.
Le pareti sembravano di burro, e l’aria all’interno era irrespirabile.
Aprii la finestra e buttai l’occhio distrattamente oltre il davanzale. La luce dei lampioni si sdraiava esile sulla strada, e solitudine correva lungo i marciapiedi. Richiusi la finestra con forza, girai i tacchi e m’incamminai con passo spedito verso la cucina.
Vidi una Ballerina di Vetro sostare immobile sopra la credenza. Un attimo di titubanza, poi adagiai tra le gambe la bottiglia: il tappo esplose nell’aria con fragore, liberando un suono stridulo e colmo di disperazione. Afferrai un bicchiere: particelle, sogni in miniatura, il passato, tutto in un attimo svanì nella gola ed anche il mio dolore, scivolò dentro, lentamente, inesorabilmente.

“Non c’è sentore d’eternità nella passione: il mio cuore chiede un altro amore”.
Presi la bottiglia, la rigirai delicatamente tra le mani, poi, stringendola con passione, cominciai a buttar giù quel nettare divino. Un sorso, ancora, ancora uno, fino a quando, trascorso qualche minuto, di quel liquido dorato nella bottiglia non rimase alcuna traccia.
Alzai verso l’alto la bottiglia, e guardai attentamente il fondo: solo trasparenze vidi, e il viso di lei oscillare dentro, mentre il cielo all’esterno era adesso talmente espressivo che si poteva racchiudere tutto in un solo respiro.
“Addio”.
Ancora lei, il ricordo di quella voce querula.
Rimasi immobile, io frammento di luce, goccia in agonia, e in quella notte avara d’emozioni persi gli ultimi pensieri.
Ancora, non c’era tempo per pensare, né ordine da custodire, né sogni da inseguire: il desiderio era svanito sulle ali delle comete, e a parte quel triste ricordo che ignobile saltellava nella stanza, null’altro era rimasto a farmi compagnia.
Un’altra bottiglia rigirai tra le mani, lucida, altera nella sua ignobile bellezza
Aprii la finestra: il tappo esplose ancora con fragore.
Un sorso, due, poi ancora uno. Adesso le pareti oscillavano e il ricordo di lei fluiva lento. Sussultò ancora il mio cuore, e disperazione frammista a nebbia sottile invase la stanza.
L’ultimo sorso, poi il cielo svanì. Silenzio intorno, qualche stella, la nebbia che fitta invase la stanza.
Caddi sul divano, e sogni di carta presero il sopravvento.


Aprile. Due anni dopo


È splendido il cielo questa mattina, lieve il respiro del vento, le rondini volano basse, e la spiaggia brilla come uno smeraldo. Il mare s’apre alla luce, delicatamente, in questo mattino inconsueto e le onde danzano e, schiuma brillante traversa il molo. L’aria profuma di salsedine, libera scorre tra i cespugli, e il senso dell’esistenza s’occulta e traballa: oltre l’orizzonte riesplode, quasi luce appare, ma solo un attimo, è solo un frammento, un dolore, il mio, quello di sempre.
Sono solo, perduto in un ricordo che lacrime calde racchiude; apro gli occhi, sbadiglio, e l’occhio butto distrattamente oltre il molo.
“Il mio cuore rincorre un altro amore”.
Il ricordo di lei m’assale, oscilla appena la sua ombra, la vedo in lontananza. Mi alzo in piedi, traballo, nulla intorno, a parte un velo di nebbia, il solito mare, la spiaggia e un’altra bottiglia.
Gli amici si sono allontanati, ed anche la mia vita appare lontana, sento qualcosa che m’appartiene, il suo respiro, poi tutto svanisce, nell’ombra. Oltre il molo intravedo qualche pescatore armeggiare con le reti, ancora il sole, la solita spiaggia e le rondini.
Di me non è rimasta traccia. Ho smarrito il passo dell’esistenza, il dolore è rimasto, ruvida la mia pelle, i pensieri intorpiditi, il corpo flaccido, avvolta l’anima mia di filo spinato.
C’è un piccolo bar vicino al molo. La costruzione è bassa, semplice nella sua desolante architettura; le pareti all’interno sono colorate di rosa pallido, e sedie di vimini circondano il bancone. Il mio amico Sprizz conosce tutti i suoi clienti, con garbo li tratta, saluta con educazione, e ad ogni cenno, versa il solito liquido.
Sprizz, ad ogni mia fugace apparizione, scrollando il capo, usa sempre la solita espressione.
“Dovresti smettere di bere, mio caro”.
Io allungo un sorriso distratto, prendo il bicchiere tra le mani, e senza pensare butto giù tutto d’un fiato quel nettare divino.
“Non puoi continuare così, amico mio”.
Sorrido ancora, e il mare oltre la finestra traballa, e l’odore di salsedine penetra nelle narici.
Un altro bicchiere, ancora uno, un altro ancora.
“Sono le tre del pomeriggio, amico mio”.
“Ho ancora i suoi occhi incollati al mio cuore”, balbetto, rivolgendomi a Sprizz.
Il mio amico appena sorride, con gli occhi lucidi e il viso ampio e luminoso.
“Dovresti smettere di bere e dimenticare”, risponde lui; e tristezza traballa in quegli occhi intelligenti.
Sono anch’io di marmo, oramai non ho altro da fare, a parte bere e inseguire i miei sogni, altro non odo, vento, fantasmi, non uno ma una moltitudine, sospesi a fluttuare tra le nuvole.
Il mondo si è capovolto.
“Sprizz, per favore, dammi la solita bottiglia”, chiedo, cercando nelle tasche gli ultimi spiccioli.
Lui mi guarda, tentenna, si caccia sotto il bancone, e prende un’altra bottiglia.
“C’è sempre l’ombra, Sprizz ?”, chiedo ridendo.
“È sempre la solita, amico mio, quella che ti condurrà per mano verso la morte”.
“Ciao, Sprizz”
“A presto, amico mio”, risponde lui con gli occhi tristi.
Il cielo è limpido, aria lieve gira intorno alle cose e la spiaggia riluce come uno smeraldo.
Mi siedo sul molo, tolgo l’involucro di carta, prendo tra le mani la bottiglia.
Un sorso ancora, l’ultimo, prima di rincorrere con lo sguardo una rondine solitaria, mentre gli spettri oscillano, l’oceano, e gli occhi di lei che sguazzano tra le onde, e io sono lontano, non uno, ma una moltitudine di ombre e lei non c’è, non verrà, mai ritornerà ad ascoltare l’urlo disperato del mio cuore.


Antonio Messina, settembre 2004.


STANZA NUMERO VENTIDUE

STANZA NUMERO VENTIDUE
Stanotte ho visto una stella cadente. I miei occhi non hanno avuto nemmeno il tempo di assorbire quell'immagine che il mio cuore già palpitava d'amore e di vita.

Il mio nome è Albino, ho la veneranda età di ottantaquattro anni e sono vedovo.
Mia moglie Rachele è salita in cielo cinque anni fa e non mi è rimasto più nulla in cui credere.
Ricordo ancora quella maledetta sera come fosse ieri. Era luglio ed il caldo opprimente soffocava il corpo e l'anima della mia compagna di vita. La sua malattia non le permetteva di pensare al domani. E il domani, per Rachele, da quella sera non fu più nemmeno una speranza. Si spense lentamente, con il sorriso sulle labbra, nonostante il cancro l'avesse logorata giorno dopo giorno. Più passavano le ore e più vedevo quel bastardo portarsi via mia moglie. Lentamente. Pezzo per pezzo. Cellula per cellula.
Era una donna straordinaria, mia moglie. Non potrò mai dimenticare tutto l'amore che è stata capace di donarmi. Era in grado di trovare positività anche nelle situazioni più spiacevoli.
E poi era bella. Dio, com'era bella. Aveva due occhi azzurri che rispecchiavano la purezza di mari lontani e una chioma liscia e nera che li metteva in risalto. La natura, poi, era stata generosa con i suoi seni, due ripide montagne perfettamente collocate al centro di una dolce pianura. I suoi fianchi erano leggermente larghi, quel tanto che bastava per renderla maledettamente sexy ed irresistibile. Già, irresistibile. E' anche per questo motivo che non ho mai capito perché scelse proprio me, come fidanzato prima e come marito poi. Non sono mai riuscito a comprendere come, ad esempio, una donna così meravigliosa potesse scegliere un burbero e grasso uomo come me. Ho un ricordo limpidissimo dei miei vent'anni. Avevo quell'età quando la conobbi. Lei era una ragazzina graziosa di diciotto anni, io un brutto uomo appena uscito dall'adolescenza. Adolescenza per modo di dire.
Già, perché ai miei tempi - quando conobbi Rachele correva l'anno 1942 - l'adolescenza non esisteva. Si diventava uomini in cinque minuti. La guerra ti faceva crescere in fretta e potevi solo pensare ad un buon modo per sopravvivere. Non c'era tempo per la timidezza o per i lunghi corteggiamenti. Non c'era tempo per niente. Ci si amava e basta. I più fortunati sono arrivati a festeggiare le nozze d'oro. Chi non ha avuto l'appoggio della buona sorte, invece, non è nemmeno riuscito a consumare la prima notte d'amore.
In tutto quel trambusto di morte e disperazione, il nostro amore è germogliato. Abbiamo visto passare davanti ai nostri occhi più di mezzo secolo. Poi, un giorno, è finito tutto. The end. Titoli di coda. Proprio come al cinema, ma senza lieto fine. La cosa peggiore è stata non riuscire a rendermi conto che il protagonista di quel brutto film ero proprio io. Non ho mai accettato la morte di mia moglie. Non ho mai accettato il fatto di doverla perdere a causa di una malattia per cui l'uomo non è mai riuscito a trovare una cura. Non ho mai più trovato pace, da quel giorno.
Così sono rimasto solo. Io, contro tutto e tutti. Contro me stesso.
La mia unica figlia, Luisa, è stata abbandonata dal marito quando aveva quarantadue anni. Due anni fa, invece, è stata costretta a spedirmi nel posto in cui mi trovo attualmente, l'ospizio “Villa delle rose”. Le mie condizioni fisiche non le permettevano più di svolgere una vita normale. Non la biasimo per questo suo gesto. D'altronde, ormai, ero diventato una specie di vegetale. Le uniche parti del corpo che riuscivo a muovere erano le braccia e la testa. I miei giorni li passavo per il cinquanta percento disteso sul letto e per l'altro cinquanta sopra una sedia a rotelle.
Quello che mi ha deluso parecchio è che mia figlia mi ha portato in questo posto un giorno qualunque, senza nemmeno rendermi partecipe della sua decisione. Senza una parola.
Così, oggi, mi ritrovo qui seduto nel giardinetto della villa. Scrivo a mia moglie, mentre attendo di riconciliarmi con lei. Sono solo. Gli altri ospiti mi considerano un malato di mente solo perché sono colpevole di spedire lettere ad un destinatario inesistente. Gli infermieri e gli assistenti sociali della villa, invece, si limitano a lavarmi, a farmi mangiare e a concedermi un paio di ore d'aria al giorno.
La stanza numero ventidue è la mia cella d'isolamento. I giardinetti rappresentano la libertà.
Due ore al giorno. Non di più. Ormai ho perso anche l'uso della parola e mi viene difficile comunicare con chi è talmente ottuso da non capire che provo un briciolo di benessere soltanto uscendo da quella maledetta stanza.
Ho imparato, in questi anni di solitudine, a gioire per le piccole cose. Non ho più la forza per lottare e l'unico modo per vivere serenamente gli ultimi giorni che mi rimangono è sfruttare il mio tempo per scrivere alla mia adorata moglie. Voglio farle sapere che mi manca da morire. Voglio dirle che la amo, perché durante la nostra vita insieme non sono stato capace di dirglielo tutte le volte che lo meritava. Sarò retorico, o forse pazzo, ma sono sicuro che lei possa leggere quello che le scrivo.

Il sole comincia a scaldare l'aria. Ho la penna in mano e comincio a scrivere.

Mia adorata Rachele,
come va lassù? Qui non tanto bene. Ormai non ho più dignità.
Il fatto è che non riesco più a farmi rispettare. Non ho la forza per pretendere il rispetto delle persone che mi circondano.
Me ne sto andando. Lentamente. Sto per raggiungerti.
Tutti, qui, lo hanno capito. Ormai sono diventato un peso per la comunità.
Non vedono l'ora di assistere al mio ultimo respiro. Anche nostra figlia non aspetta altro.
Non gliene faccio una colpa: d'altronde con i pochi soldi della sua pensione riesce a malapena a pagare la retta di questa prigione.
Ti amo, Rachele. Mi sento l'uomo più fortunato di questa terra.
In fondo non mi interessa niente della considerazione che le persone hanno nei miei confronti.
Tu sei la mia fortuna. La stella che guida le mie notti più buie.
Come si sta lassù? Mi stai aspettando?
Fremo all'idea di poter toccare di nuovo il tuo viso. Voglio baciarti, amore mio.
Voglio che il mio amore ti entri nelle viscere. Voglio sentire il sangue ribollire passione.
Respiro aria per sopravvivere, amore mio. Per vivere ho bisogno di te.
Ti ho mai detto quanto ti amo? Forse si, ma non abbastanza.
Un'infermiera della villa si sta avvicinando a piccoli passi. Vuole portarmi via da qui.
Non ho più tempo. Ti amo, mia dolce Rachele. A domani.


Eccomi di nuovo qui. Stanza ventidue, ovviamente. Mi hanno coricato sul letto.
Appena ho toccato il cuscino con la testa mi sono sentito soffocare. Jenny, questo è il nome dell'infermiera che si occupa di me, si è bloccata per qualche minuto a guardarmi. Ha uno sguardo triste, che non riesco a decifrare. Una lacrima riga il suo volto.
Scappa via, correndo, senza nemmeno lasciare il tempo a quella lacrima di staccarsi dalla sua pelle fresca di ragazza. Sono rimasto di sasso. Non capita spesso di vedere certe cose qui dentro.
Dopo qualche ora, mi trovo ancora sdraiato sul letto a fissare il soffitto. Non è proprio un bel vedere. Ci sono piccole crepe che si aprono al centro e una striscia di muffa sull'angolo destro. Ad essere onesti, tutta la stanza ventidue non si può certo definire il “fiore all'occhiello” della villa. Le pareti sono annerite dal fumo provocato dall'incendio che, tre anni fa, ha colpito l'ala destra dell'edificio. Da quella volta, nessuno si è preso cura di imbiancarle. Del soffitto ho già parlato. L'unica finestra presente è costruita con un legno di pessima qualità, a sua volta ammuffito, probabilmente a causa dell'umidità che qui si fa pesante soprattutto nei mesi estivi. Il fulcro della ventidue è il letto nel quale riposo. Si tratta di un matrimoniale con sponde in legno - lo stesso usato per la finestra - troppo grande per la stanza. Lo spazio vitale è ridotto al lumicino. Certo, non è un problema che mi tocca personalmente. Non essendo in grado di camminare, non mi interessa più di tanto se tra il bordo del mio letto e le pareti ci sono, si e no, quaranta centimetri di spazio calpestabile. Sono in grado, a malapena, di scorgere il colore del pavimento, un rosso intenso che lascia spazio a nugoli di polvere che giacciono lì da chissà quanto tempo. La società privata che amministra la villa non sta passando un periodo semplice dal punto di vista economico, e la situazione si riflette inevitabilmente sulla qualità del servizio. Il personale è sul piede di guerra da parecchie settimane, a causa dei ritardi cronici sul pagamento degli stipendi. Gli ospiti non possono fare altro che subire la situazione in silenzio, complice anche il totale disinteressamento delle famiglie di appartenenza.
E' quasi passata la mezzanotte e non mi rimane che chiudere gli occhi. Ho bisogno di riposarmi. La notte mi regala sempre un sorriso. Sogno. Sogno continuamente. Sogno Rachele. Spesso sogno anche ad occhi aperti. Non avrei mai creduto che la vecchiaia mi avrebbe dato un privilegio che non ho avuto in gioventù, quando sognare voleva dire vivere. Per lungo tempo sono stato troppo razionale e cinico e non ho mai dato il benché minimo spazio a desideri irrealizzabili. Ho scoperto la bellezza della vita ad ottantaquattro anni perché ho scoperto di essere capace di sognare.
Anche oggi è arrivato quel momento. Smetto di fissare il soffitto. Spengo la luce. Buonanotte.

Le sette del mattino. Sono sveglio. Jenny è piombata nella mia stanza da qualche secondo.
La mia carrozzella è di fianco al letto. Non sono abituato ad alzarmi così presto. L'ultima volta che mi sono svegliato prima delle nove è stato a causa della morte del mio vicino di stanza, tale Raffaele Patrizi.

Erano le sei del mattino, quando l'infermiera di turno fece un urlo che svegliò tutti gli ospiti. Si seppe poi, a distanza di giorni, che Raffaele Patrizi, ex ferroviere in pensione, nato a Milano da genitori siciliani, si era impiccato con la cintura dei suoi pantaloni al lampadario della sua stanza. Era in villa da qualche settimana, portato quasi a forza dal marito della figlia. In poche settimane aveva perso ogni speranza di vivere dignitosamente gli ultimi anni della propria vita. In pochi minuti aveva deciso che non valeva più la pena vivere.

Jenny non dice nulla. Si limita a prendermi di peso e a farmi accomodare sulla carrozzella.
Dopo pochi istanti sono seduto sulla panchina dei giardinetti, carta e penna in mano. Ho trovato il mio taccuino e la mia stilografica nella tasca portaoggetti della carrozzella.
Non mi sono preoccupato di domandarmi per quale motivo Jenny mi ha portato nel mio posto preferito a quest'ora. Mi limito a scrivere.

Mia adorata Rachele,
Oggi mi sono svegliato prestissimo. Da quanto tempo non lo facevo?
Jenny si è presentata in camera mia all'alba, mi ha tirato giù dal letto e mi ha condotto qui, nei giardinetti. Sono rimasto senza parole. In tutto il tempo passato qui dentro,
non mi era mai capitata una cosa simile. Ti ho mai parlato di Jenny? E' una ragazza giovane,
avrà vent'anni, ed è molto carina. Onestamente credo che qui dentro sia sprecata.
Quando la guardo vedo in lei tanta tristezza. Non parla mai con nessuno degli ospiti e nemmeno con le sue colleghe. Possibile che una ragazza giovane e bella come lei sia così sola?
No, non è possibile. Non voglio crederci, perlomeno.
La solitudine è roba per vecchi, come me. Jenny non può essere sola. Non lo merita.
Amore, ricordi quando ci siamo conosciuti? Beh, volevo farti sapere che quel momento rimarrà per sempre impresso nei miei ricordi come il momento più bello della mia vita. In assoluto.
Non hai idea di come mi batteva forte il cuore nell'esatto istante in cui mi hai chiesto se potevamo rivederci. Ero emozionato come non lo ero stato mai. Di momenti indimenticabili, poi, me ne hai regalati tanti altri, senza chiedere mai niente in cambio. Mi hai amato come ogni uomo desidera di essere amato. Mi hai amato con tutta te stessa, senza mai tirarti indietro.
Devo chiederti scusa, mia amata Rachele. Devo espiare una colpa che non ho potuto farmi perdonare quando eri più vicina a me. Ti ho amata, Rachele. Profondamente. Per tutta la mia vita non ho avuto che occhi per vedere te. Il mio cuore è sempre stato tuo servo fedele.
Quello che mi devasta, amore, è non essere stato in grado di dimostrartelo, di non aver avuto il coraggio di tirare fuori quello che provavo per te.
Perdonami, amore mio. Perdona quest'uomo piccolo e fragile, di fronte alla tua immensità.

Per sempre tuo, Albino.

Dopo quattro ore mi trovo ancora ai giardinetti. Forse si sono dimenticati definitivamente di me. D'altronde, è risaputo, la mia salute interessa a pochi. Sono ormai passate le dieci ed in teoria dovrebbe arrivare qualcuno per farmi l'iniezione quotidiana. Non ho mai capito quale sostanza introducono nel mio organismo. A dire la verità, non me lo sono nemmeno mai chiesto. L'unica cosa che so è che mi fa stare meglio. Sto respirando l'aria ancora fresca del mattino, quando ad un tratto riappare Jenny, siringa in mano. Prende un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool, lo sfrega contro il mio braccio e mi inietta il famoso liquido di cui non conosco la natura. Ad un tratto alza gli occhi e mi sorride. Prende un foglietto di carta piegato in quattro da una tasca e me lo porge.
<>, mi sussurra all'orecchio.
Rimango di sasso. Non mi aveva mai rivolto la parola prima d'ora. Sono sinceramente confuso.
Prendo in mano quel pezzo di carta che mi ha lasciato. Lo apro. Lo leggo.

Caro signor Albino,
Quando leggerà questo biglietto sarà molto vicino a riconciliarsi con sua moglie.
L'ultima visione terrena sarà per lei l'immagine dei suoi amati giardinetti.
Non voglio chiederle perdono per quello che ho fatto poco fa, perché non avrebbe senso.
Sono solo una povera infermiera di vent'anni, rimasta orfana del proprio amore.
Si chiamava Luca. Era tutto quello per cui valeva la pena vivere. Un giorno, il mare me lo ha portato via. Per sempre. Da quel giorno non voglio più vivere.
Non ho mai avuto il coraggio di uccidermi. Se lo avessi avuto, oggi non sarei qui.
Ho letto tutte le sue lettere. Quando lei le imbucava dentro la buchetta della villa, io me ne impossessavo e le custodivo gelosamente. Non ho mai conosciuto un uomo più romantico di lei.
Non so quando potrò ritrovare il mio Luca, ma sono certa che lei, tra poco, tornerà tra le braccia della sua amata Rachele. Mi prometta che non smetterà mai di amarla.

Un bacio, Jenny

Il battito del mio cuore si sta facendo sempre più debole. Ho il viso bagnato dalle lacrime.
Non piangevo più dal funerale di mia moglie. Non riesco più a distinguere le immagini e il respiro si sta facendo pesante. Sto arrivando, amore mio. Aspettami.
Jenny è comparsa a pochi passi da me. Non la vedo, ma ne percepisco la presenza.
<>, le dico con un filo di voce, <>
Un brivido freddo scuote il mio corpo, mentre una mano calda si posa sul mio viso.
L'ultimo respiro. Grazie, Jenny.
                                           
                                                                                                            Manuel Scandellari

LA DIVINA COMMEDIA, IL VIAGGIO PIÚ IMPORTANTE DEL DANTE

             

La Divina Commedia (titolo originale: Comedìa) è un poema in tre cantiche (Inferno · Purgatorio · Paradiso) scritto dal poeta fiorentino Dante Alighieri.

L'opera è generalmente considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale ed accoglie anche le premesse di nuove idee. Il poema, pur continuando i modi caratteristici della letteratura e dello stile medievali (ispirazione religiosa, fine morale, linguaggio e stile basati sulla percezione visiva e immediata delle cose), tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla spiritualità tipica del Medioevo, tesa a cristallizzare la visione del reale.

Genesi e storia

Dante immagina di compiere il proprio viaggio ultraterreno durante la settimana santa del 1300: l'anno del primo giubileo. L'Inferno non contiene notizie posteriori al 1309 (la prima menzione di copie manoscritte è del 1313). Il Purgatorio non contiene riferimenti a fatti posteriori al 1313 e fu divulgato separatamente nei due anni seguenti. Il Paradiso fu forse iniziato nel 1316 e terminato negli ultimi anni di vita del poeta, mentre i singoli canti venivano divulgati man mano che venivano compiuti.

Dopo la morte del poeta cominciarono ad apparire commenti alle singole parti. Nell'epistola XIII, Dante spiega a Cangrande il titolo "comedia" (l'aggettivo "divina", usato da Boccaccio nella sua biografia dantesca Trattatello in laude di Dante fu introdotto in un'edizione a stampa del 1555). La ragione del titolo è retorica e connessa al tema ed al livello linguistico: l'opera inizia con una situazione spaventosa e termina felicemente (la tragedia invece ha inizio piacevole e fine tremenda), e il livello linguistico è dimesso e umile per facilitare la comunicazione (la parlata volgare).

Lingua e stile

Dante non si può scindere dalla tradizione poetica provenzale, come dalla poesia provenzale non si può separare lo Stil Nuovo di cui Dante fu insigne rappresentante. Stile e linguaggio danteschi derivano da modi caratteristici della letteratura latina medievale: la giustapposizione sintattica (brevi elementi successivi) cesure, stacchi, uno stile che non conosce la fluidità e il modo mediato e legato dei moderni. Dante ama l'espressione concentrata, il rilievo visivo e rifugge dai legami logici, il suo linguaggio è essenziale.A differenza di petrarca che utilizzava un linguaggio puro e semplice caratterizato da un ristrettissimo numero di parole, un unilinguismo.

Struttura

La Commedia racconta un viaggio nei tre regni dell'aldilà (in cui si proiettano il male e il bene del mondo terreno) compiuto da Dante ("simbolo" dell'umanità), che si affida alla guida di Virgilio (allegoria della ragione) e poi di Beatrice (fede). Si tratta di un poema didascalico strutturato in terzine di endecasillabi(ABABCB), composto da 100 canti suddivisi in tre cantiche di 33 canti ciascuna, più un canto introduttivo posto all'inizio dell'Inferno. L'intera opera consta di 14.233 versi totali: superiore dunque in lunghezza sia all'Eneide virgiliana (9.896 esametri), sia all'Odissea omerica (12.100 esametri).

I numeri hanno una valenza simbolica, [1+33+33+33 = 100, multiplo di 10 = perfezione rappresentata, 3 = Trinità. Il 3 ricorre nella forma metrica (terzina o "terza rima" ossia strofe di tre endecasillabi a rima incatenata ABABCBCDC) ed è riscontrabile in tutta l'opera di Dante (ad esempio nella Vita Nuova); i numeri, inoltre, legano le numerose corrispondenze formali del testo (i canti sesti delle tre cantiche sono di tema politico), legando gli episodi in un'intricata rete di valori dottrinali.].

La Commedia è anche una drammatizzazione della teologia cristiana medievale, arricchita da una straordinaria creatività immaginativa.

                    Il sommo poeta   Il  Sommo Poeta

Tematiche e contenuti

Il viaggio ultramondano è compiuto fra l'8 ed il 15 aprile (Settimana Santa) del 1300 (primo Giubileo). personale universale (redenzione dell'umanità)

  • Autobiografico: redenzione dell'anima del poeta dopo il periodo di traviamento (selva oscura)
  • Redenzione politica: l'umanità con la guida della ragione (Virgilio) e dell'impero raggiunge la felicità naturale (Paradiso Terrestre = giustizia e pace)
  • Redenzione religiosa: la guida della fede (Beatrice), porta alla felicità soprannaturale (Paradiso)

Dante rappresenta cielo e terra, ma la terra trova nel poema una rappresentazione nuova, una profonda comprensione della realtà umana. In Dante è presente un modo nuovo e disincantato di percepire la storia, il racconto storico abbraccia il corso dei secoli con la storia dell'impero romano e cristiano, delle lotte fiorentine tra Bianchi e Neri, una larga considerazione prospettica della storia della Chiesa e della storia contemporanea del Papato.

L'osservazione della natura è accurata e armoniosa, accentuata nel suo valore prospettico, ricca e determinata. Le note geografiche e visive si succedono.

Il paragone è lo strumento con cui il poeta ritrae il reale mediante un intreccio di notazioni varie e reali. La natura dantesca scaturisce sempre da un riferimento personale ed è, non di rado, attratta nell'orbita drammatica della rappresentazione. Tutto in Dante ha un valore soggettivo, il poema non è solo la storia dell'anima cristiana che si volge a Dio, ma anche la vicenda personale di Dante, inestricabilmente intrecciata agli avvenimenti che narra. Dante è sempre attore e giudice.

Il carattere autobiografico prevale nella poesia rende Dante, la profezia religiosa e politica, si sviluppa su un terreno di esperienze personali, dichiaratamente espresse, e di aspirazioni precise. Dante sovrappone la profezia ai fatti concreti e non li dimentica, né insegue sogni vaghi e irrealizzabili di rinnovamento come i profeti medievali, infatti il suo vagheggiamento di un rinnovamento religioso, morale e politico ha obiettivi ben precisi: una ritrovata moralità della Chiesa, la restaurazione dell'Impero, la fine delle lotte civili nelle città.

L'allegoria è il fondamento del poema ed è il segno più scoperto del suo medievalismo; il mondo è raffigurato suddiviso: da un lato la realtà storica e concreta, dall'altro il sopramondo, ossia il significato della realtà storica trasferita sul piano morale e su quello ultraterreno. Il costante riferimento al sopramondo attesta, la subordinazione medievale di ogni realtà a un fine morale e religioso.
Siffatta subordinazione è rigida e imperante e nell'assoluto valore dell'allegoria, nella fedeltà ai modi e allo stile ereditati dalla letteratura precedente è il medievalismo di Dante.

          

MAFALDA, RIBELLE MA PREOCCUPATA PER L´ UMANITÁ

MAFALDA, RIBELLE MA PREOCCUPATA PER L´ UMANITÁ

 Joaquín Salvador Lavado (Mendoza, Argentina, 17 luglio 1932), meglio conosciuto come Quino, è un autore di fumetti. Nacque il 17 luglio 1932 (anche se all'anagrafe risulta nato il 17 agosto) e in famiglia, fin dalla nascita, viene chiamato Quino per distinguerlo dallo zio Joaquín Tejón, pittore e disegnatore pubblicitario. Durante l'adolescenza rimase orfano di madre (1945) e di padre (1948) e, terminata la scuola dell'obbligo, si iscrisse alla Scuola di Belle Arti di Mendoza nel 1945 che abbandonò quattro anni dopo. L'anno successivo riuscì a vendere il suo primo fumetto di pubblicità ad un negozio di tessuti.

Nel 1951 si recò a Buenos Aires con l'intenzione, vana, di trovare lavoro come fumettista. Tornò quindi a Mendoza e, dopo il servizio militare, nel 1954 si trasferì a Buenos Aires sempre con l'intento di realizzare il suo sogno di lavoro. E questa volta le cose andarono diversamente: i suoi disegni infatti vennero pubblicati regolarmente sulla pagina umoristica del settimanale "Esto es". È solo l'inizio di una lunghissima carriera che ha visto i suoi disegni comparire su centinaia di quotidiani e periodici latino americani ed europei. Nel 1957 iniziò a pubblicare con regolarità su "Rico Tipo" e l'anno successivo cominciò ad occuparsi anche di grafica pubblicitaria.

Nasce Mafalda

Nel 1962 realizzò la sua prima mostra in una libreria di Buenos Aires e l'anno successivo pubblicò il suo primo libro "Mundo Quino" che raccoglie vignette mute. Ma il 1963 è da ricordare soprattutto per la nascita di Mafalda. La genesi della piccola-grande bambina è abbastanza strana: doveva infatti servire per pubblicizzare una marca di elettrodomestici: la Mansfield il cui logo conteneva una M e una A (da cui Mafalda). Quino non fece quella campagna pubblicitaria ma gli restarono alcune strisce. Nel 1964 la bambina, a cui il nome di Quino è ormai indissolubilmente associato, comparve in tre strisce pubblicate da "Gregorio", supplemento umoristico della rivista "Leoplán", Il 29 settembre Quino inizia a pubblicare regolarmente le strisce di Mafalda su "Primera Plana", il settimanale argentino più importante dell'epoca. Il 9 marzo dell'anno successivo terminò la collaborazione con il settimanale e Mafalda passò sulle pagine del quotidiano "El Mundo". Per il Natale 1966 l'editore Jorge Álvarez pubblicò il primo libro che raccoglieva in ordine cronologico le strisce di Mafalda. La tiratura di 5.000 copie andò esaurita in due giorni.

La collaborazione con "El Mundo andò avanti per oltre due anni e mezzo, fino al 22 dicembre 1967 quando il quotidiano chiuse. Nel frattempo Jorge Álvarez pubblicò il secondo volume-raccolta delle strisce. La terribile bambina ricompare in edicola solo il 2 giugno 1968 (su "Siete días"). In quell'anno non solo Jorge Álvarez pubblica altri due volumi di Mafalda, ma per la prima volta trenta strisce del personaggio vengono pubblicate in Italia all'interno del volume antologico "Libro dei bambini terribili per adulti masochisti". Il primo volume completamente dedicato a lei nel nostro paese apparve solo un anno dopo: si intitolava "Mafalda la contestataria" e la prefazione portava la firma di Umberto Eco; intanto in Argentina usciva il quinto volume della serie.

 

Mafalda è la protagonista dell'omonima striscia a fumetti scritta e designata dal fumettista argentino Quino, pubblicata dal 1964 al 1973, molto popolare in America Latina ed in Europa.

 

È una bambina dallo spirito ribelle, profondamente preoccupata per l'umanità e per la pace mondiale, che continua a porsi ed a porre ai suoi genitori domande candide e disarmanti nel loro enunciato, ma a cui è arduo, quando non impossibile, trovare risposta nel mondo in cui viviamo. Domande che sempre mettono i genitori in imbarazzo, mettendo a nudo le contraddizioni e le difficoltà del mondo degli adulti, nel quale Mafalda rifiuta di integrarsi.

Umberto Eco, in un lavoro del 1968, l'ha paragonata al Charlie Brown di Charles M. Schulz, evidenziandone la simile età e le diversità di approccio verso il mondo in cui ognuno dei due vive.

Mafalda è stata pubblicata anche in Italia ed escono ancora oggi sul mercato volumi di raccolte di strisce.
Tra le lingue in cui è stata tradotta si annovera anche il cinese.
Non è mai stata pubblicata negli Stati Uniti.

Benché Quino si sia sempre opposto all'adattamento della striscia per il cinema o il teatro, Carlos Márquez ne ha prodotto un film d'animazione nel 1982, poco conosciuto.

A Mafalda è stata dedicata una piazza di Buenos Aires.

La storial personaggio, il cui nome è ispirato da alcune novelle di David Viñas tra cui "Dar la cara," è nato nel 1962 per un cartoon promozionale che sarebbe dovuto apparire sul quotidiano Clarín. Tuttavia, all'ultimo momento, Clarín ruppe il contratto e la campagna fu annullata.

Mafalda divenne un vero fumetto su suggerimento di Julián Delgado, a quel tempo editore del settimanale Primera Plana ed amico personale di Quino. La prima striscia comparve su quel settimanale a partire dal 29 settembre 1964 con episodi che avevano per protagonisti Mafalda ed i suoi genitori; il personaggio di Felipe fu aggiunto nel gennaio del 1965. Due mesi dopo, il 9 marzo, la pubblicazione fu sospesa a seguito di una controversia legale.

Una settimana dopo, il 15 marzo 1965, Mafalda comincia ad apparire quotidianamente sulle pagine di El Mundo, di Buenos Aires, permettendo all'autore di seguire da vicino l'attualità. Nelle settimane successive nacquero i personaggi di Manolito e Susanita, mentre troviamo la mamma di Mafalda incinta quando il giornale chiude, il 22 dicembre 1967.

Le pubblicazioni sono riprese sei mesi più tardi, il 2 giugno 1968, nel settimanale Siete Días Illustrados. Dato che il fumetto andava preparato almeno due settimane prima della pubblicazione, Quino non riuscì più a seguire col fumetto l'attualità come aveva fatto in precedenza. Smise definitivamente di pubblicare la striscia il 25 giugno 1973.

Da allora, Quino ha disegnato Mafalda pochissime altre volte, e solo per attività connesse alla promozione dei diritti umani. Un esempio è il suo poster del 1976 per l'UNICEF che illustra la Convenzione Internazionale sui Diritti  dell'Infanzia.

I personaggi

                                                  

  • Mafalda: il personaggio principale, una bambina di sei anni che odia la minestra. Si comporta come ogni bambina della sua età, ma ha anche un occhio acuto ed indagatore sul mondo e sulla vita.
  • Mamma (Raquel, 6 ottobre 1964) e Papá (senza nome, 29 settembre 1964): i genitori di Mafalda sono una coppia normalissima, spesso messa in difficoltà dalla personalità della figlia. Il papà lavora in un alienante ufficio di assicurazioni, la mamma è casalinga.
  • Felipe (19 gennaio 1965): il migliore amico di Mafalda, con cui condivide lo sguardo candido sul mondo; è un sognatore che odia la scuola - preferisce i fumetti del Cavaliere Solitario - e spesso ingaggia lotte con la sua coscienza per via del suo senso di responsabilità. È stato ispirato dal giornalista Jorge Timossi, amico di Quino.
  • Manolito (Manuel Goreiro, 29 marzo 1965): figlio di un negoziante spagnolo, mette denaro ed affari sopra ogni altra cosa; è uso vendere caramelle agli amici fingendo di offrirle. A scuola è un po' zuccone.
  • Susanita (Susana Beatriz Chirusi, 6 giugno 1965): bambina dalla visione del mondo praticamente opposta a quella di Mafalda. Frivola e superficiale, tutto ciò che vuole dalla vita è un marito ricco che le dia un numero enorme di figli.
  • Guille (Guillermo, 1968): il fratellino di Mafalda (in italiano Nando).
  • Miguelito: personaggio più giovane ed innocente degli altri, dalla personalità buona, quando riesce a superare l'egoismo dietro il quale spesso si difende
  • Libertad (15 febbraio 1970): una bambina piccola piccola. Non a caso (in italiano Libertà).

 

SENZA DI TE

SENZA   DI   TE

Il mio cuscino mi guarda di notte con durezza
come una pietra tombale;
non avevo mai immaginato che tanto amaro fosse essere solo
e non essere adagiato nei tuoi capelli.
Giaccio da solo nella casa silenziosa,
la lampada è spenta, e stendo pian piano,
le mie mani per afferrare le tue,
e lentamente spingo la mia fervente bocca verso di te
e bacio me fino a stancarmi e ferirmi
e all’improvviso son sveglio,
e intorno a me la fredda notte tace,
luccica nella finestra una limpida stella,
o tu dove sono i tuoi capelli biondi,
dov’è la tua dolce bocca?
Ora bevo in ogni piacere la sofferenza e veleno in ogni vino;
mai avrei immaginato che fosse tanto amaro
esser solo esser solo e senza di te!

(Hermann Hesse)

POSSO SCRIVERE I VERSI

POSSO  SCRIVERE  I  VERSI

 Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Scrivere, ad esempio: "La notte è stellata,
e tremolano, azzurri, gli astri, in lontananza ".
Il vento della notte gira nel cielo e canta.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
lo l'amai, e a volte anche lei mi amò.
Nelle notti come questa la tenni tra le mie braccia.
La baciai tante volte sotto il cielo infinito.
Lei mi amò, a volte anch'io l'amavo.
Come non amare i suoi grandi occhi fissi.
Posso scrivere i versi più tristi questa notte.
Pensare che non l'ho. Sentire che l'ho perduta.
Udire la notte immensa, più immensa senza lei.
E il verso cade sull'anima come sull'erba la rugiada.
Che importa che, il mio amore non potesse conservarla.
La notte è stellata e lei non è con me.
In lontananza qualcuno canta. In lontananza.
La mia anima non si accontenta di averla perduta.
Come per avvicinarla il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.
La stessa notte che fa biancheggiare gli stessi alberi.
Noi, quelli di allora, più non siamo gli stessi.
Più non l'amo, è certo, ma quanto l'amai.
La mia voce cercava il vento per toccare il suo udito.
D'altro. Sarà d'altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.
Più non l'amo, è certo, ma forse l'amo.
Così breve l'amore, ed è sì lungo l'oblio.
Perché in notti come questa la tenni tra le mie braccia,
la mia anima non si rassegna ad averla perduta.
Benché questo sia l'ultimo dolore che lei mi causa,
e questi siano gli ultimi versi che io le scrivo.

(Pablo Neruda)

MI PIACE QUANDO TACI

MI PIACE QUANDO TACI

Mi piaci quando taci perché sei come assente,
e mi ascolti da lontano, e la mia voce non ti tocca.
Sembra che si siano dileguati i tuoi occhi
e che un bacio ti abbia chiusa la bocca.
Siccome ogni cosa è piena della mia anima
tu emergi dalle cose, piena dell’anima mia.
Farfalla di sogno, assomigli alla mia anima,
e assomigli alla parola malinconia.
Mi piaci quando taci e sei come distante.
Sembri lamentarti, farfalla che tuba.
E mi ascolti da lontano e la mia voce non ti giunge:
lascia che io taccia con il silenzio tuo.
Lascia che ti parli anche con il tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e stellata.
Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.
Mi piaci quando taci perché sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Poi basta una parola, un sorriso.
E sono felice, felice che non sia vero.

(Pablo Neruda)



NOI UOMINI

NOI  UOMINI

Lascio volare al tempo,

Ogni speranza che io sento;

 A cui amano va il mio canto,

 Grido scancellato dal vento.

 

 Sconfitto dal dolore,

 Sento venire da un vuoto,

 Buia voragine chiamata vita,

 Cercando e sognando nostro ruolo.

 

 Siamo uguali, siamo diversi,

 Noi uomini cosí la pensiamo;

 É nostro essere di sogni persi

 Perché dubbiano che anche noi amiamo?

 

 Ci credono rocce ruvide,

 Che nessuna goccia puó rodere;

 Ma siamo un silenzioso cuor

 Che piange tante volte d´amor.

 

 Nostra barriera d´argento,

 Ci dá la forza d´un lampo;

 Ma in fondo siamo come il vento,

 A volte tempestuoso, a volte calmo.

 

 Nostri occhi ci credono liberi

 Liberi come passerotti d´aprile;

 Ma nostre stesse ali ci affogano

 E tutto intento di volare é in vano.

 

 Castello di grosse pareti,

 Costruito sú una morbida palude,

 Ad aprir la porta siamo costretti,

 Non per amore, sennó per abitudine.

 

 Man che prende un ferro,

 Ugual che una penna o un mattone;

 Stessa mano che accarezza un figlio

 Per perdonare, perché non ci sia rancore.

 

 Inmigrante solitario del mondo,

 Sei la terra, l´acqua, i fuoco;

 Ma il tuo io piú profondo

 Cammina coi piedi nudi nel vento.

 

 Tuo stesso sangue,

 Scoppia tuo petto d´orgoglio;

 Tuo stesso sangue,

 Sei tu, proiettato all´eternitá

 Ora si, é piú difficile,

 Spiegare cos´é l´amore, l´odio, la libertá.

 

 Fuggi affanoso dal tuo presente,

 Vivi nel domani, senza certezza;

 Non lasciamo spazio alla mente

 Dolore, perché muore la giovinezza.

 

 Siamo uguali, siamo diversi,

 Noi uomini cosí la pensiamo;

 L´uomo, attraverso questi versi

 Vuol essere cosí " Tanto Umano".

 

                                             Giorgio  Polcri