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COL CUORE IN ITALIA

Letture

LA TERRA DI MEZZO

LA   TERRA   DI   MEZZO

Dal finestrino dell'aereo si potevano vedere le alte vette dei monti nepalesi, le nuvole le avvolgevano, ricoprivano quegli enormi ammassi di pietra di cui si potevano vedere le punte, danzavano intorno a loro seguendo il ritmo di una melodia di Mozart; alcune nuvole salivano oltre le vette più alte, esse stesse sembravano delle montagne, esse stesse apparivano come una parte dell'Annapurna.
È difficile descrivere il Nepal a un occidentale, credo che sia difficile trovare delle immagini o delle parole adatte a rappresentare una realtà così diversa dalla nostra, credo che l'unico modo per farsi un'idea di Katmandu o di un'altra città di questo stato così mistico e povero sia percorrere le sue strade, sentire gli odori degli incensi e di alcuni loro fiori essiccati che si mescolano all'intenso puzzo di smog sprigionato dalle marmitte delle loro vecchie auto, vedere gli appariscenti abiti delle donne e i volti sorridenti dei bambini che si mettono in posa per farsi fare una foto.
In questo momento molte immagini si stanno sovrapponendo nella mia mente: le molte persone che tentano di vendere qualche cosa ai turisti; il fumo sprigionato dalle fiamme che bruciavano i cadaveri dei morti rispettando un antichissimo rito; quella scimmietta spaventata che si stava aggrappando con tutte sue forze alla spalla della ragazza inglese e che mi stava guardando con quei suoi occhi così umani... pensieri, ricordi, frammenti di vita vissuta che sembrano precipitarsi sopra la punta di questa piccola penna per poter essere immortalati su questo vecchio foglio di carta.
Il Nepal è uno splendido cocktail fra città, paesini e montagne; una fusione fra religione e vita quotidiana. La stessa religione è un meraviglioso accostamento di buddismo e induismo: si possono ammirare i rilassanti frati tibetani che con i loro canti riempiono l'aria di una pacifica atmosfera, che suonano le loro campane tibetane, che leggono le loro antiche preghiere... Contemporaneamente gli induisti pregano i loro molti dei, entrano nei loro templi e sacrificano polli, capre o bufali a seconda del rito a cui si riferiscono; vederli pregare mi da contemporaneamente l'idea dell'ordine e del disordine: l'ordine di una tradizione composta da tante azioni apparentemente disordinate!
Molti considerano i riti induisti crudeli e sanguinari, questa mania di giudicare, di emettere facili sentenze caratterizza probabilmente noi turisti occidentali sempre bramosi di giudicare ciò che non conosciamo, desiderosi di muovere la lingua e di porci su quel piedistallo da cui poter rivendicare la nostra superiorità sull'intero universo... Provando per qualche istante a osservare gli indiuisti senza volerli necessariamente giudicare credo sia difficile non vedere la loro devozione, vedere uomini, donne e bambini seguire le loro processioni, toccare alcuni membri delle processioni ed eseguire un loro rito, pagare delle somme di denaro per loro notevoli per poter sacrificare un animale e poter così rispettare i loro riti millenari.
Percorrendo i sentieri delle montagne è facile imbattersi in delle favolose risaie, vedere i verdi luminosi delle piante più giovani intercalare in dei gialli intensi delle piante che iniziano a seccare; seguendo questi sentieri è facile trovare molti contadini che lavorano con antichi strumenti, che eseguono il loro lavoro come facevano i loro antenati; incrociare uomini o donne che trasportano delle pesanti ceste sulla schiena; ammirare le imponenti punte delle mastodontiche montagne alte più di 8000 metri...
Continuando a salire la cosa che credo sia più sorprendente è la vegetazione: verdi alberi sopra i 3000 metri; una vegetazione tropicale alla bellezza di 2000 metri di altezza; rododendri giganti che crescono lungo i sentieri...
Mentre milioni di persone camminano nelle strade e lungo i sentieri le nuvole corrono sopra i cieli, si annidano rapidamente intorno ad alcune vette che fino a pochi istanti prima erano facilmente visibili; anche il tempo atmosferico sembra voler rivendicare l'anima ambigua di questa terra di mezzo situata fra l'India e il Tibet, in cui si possono trovare persone con tratti somatici cinesi accanto ad altre con tratti somatici indiani così come si possono vedere raffigurazioni di Buddha che guardano gli alti templi indiani.

 


Daniele Landini

PIU´ FORTE DEL DESTINO

PIU´  FORTE   DEL   DESTINO Amata mia,

terribile è l'angoscia che mi tormenta. Non so, amor mio, se ce la farò a tirare avanti perché troppo grande è il sacrificio che mi s'impone. A volte mi sento un vile, non oso parlare per non turbare la serenità, la felicità degli altri; e alla tua, alla mia felicità chi ha pensato? Soltanto ora mi accorgo di quanto sia egoista il mondo. Ora, solo ora, mi accorgo quanto grande sia stato il tuo, il mio sacrificio: il nostro errore.

Oh, amore mio, è terribile credimi! Vivere così. Dormire nello stesso letto, vivere sotto lo stesso tetto e amarsi e odiarsi. Sì, anima mia, io odio e lei mi ama. Com'è triste la sera, come ora: lei al mio fianco, la testa appoggiata sulla mia spalla, ed io scrivo.

- Tesoro, che cosa scrivi?

- Una novella.

Sì, una novella triste e angosciosa che dice tutto il mio tormento, il mio dolore alla donna che amo, e che mi è proibito di amare perché... sono sposato. A colei che ho nel sangue e che non posso scacciare perché significherebbe morire.

Sapessi, amor mio, com'è crudele per me ingannare questa ragazza innamorata. Carezzo la sua chioma bruna, lei mi guarda con sguardo indaga-tore e sembra leggere nel mio cuore, nella mia mente, perché indovina ogni mio pensiero. Oh! Come si può vivere così? Sentirla come una catena e non potersene liberare, sentire la sua bocca sulla mia, baciarmi con passione, con calore e pensare ad un'altra bocca che io sì, baciavo con avidità e desiderio. Sentire la sua voce sussurrare parole d'amore e pensare ad un'altra voce, carezzare il suo viso di bambina e vedere quel volto proteso in atteggiamento sentimentale sempre davanti agli occhi, che non mi lascia mai: il tuo volto, cara!

Più terribile e vederla abbandonarsi con fiducia, con affetto infinito ed accetto i suoi abbandoni senza desiderio. Come ora. Ella dorme sicura del mio amore, ed io la sto tradendo. Il mio pensiero è lontano, corre a te, più veloce del vento; indietro ai tempi felici del nostro amore, ai tempi beati di ragazzo; lassù ai Camaldoli, alla spiaggia di Coroglio, con nostalgia e rimpianto.

E' angosciante rimanere in questo letto. Scendo, vado in tinello, prendo l'album delle foto. Non è che un cartoncino ma sa darmi tanto sollievo. Tu in pantaloncini azzurri, io al tuo fianco, mi sorridi ed io mi perdo in quel sorriso luminoso, dimentico di tutto. Passo la mano lieve, come per accarezzarti, vedo un luccichio, è la vera che mi riporta alla realtà: il sogno è finito! Per darmi coraggio m'illudo che anche il nostro amore è stato un sogno. Ma ahimè! Non può essere stato un sogno perché tutto mi parla di te; tutto mi dice che il nostro amore è stato vissuto e che, tuttora vive.

Dobbiamo dirci addio? E poi? Poi da chi ricorrerò quando sarò triste per essere confortato, che neppure mia madre sa compatirmi come te? Ma il destino è stato più forte del nostro amore!

Cara, vorrei vederti ancora una volta, per ritornare insieme al tempo che "fu nostro" per ritrovare, sia pure per un attimo, i sogni che facemmo ad occhi aperti.

Ti aspetto. Ciao, tuo Enrico.

 

Era la terza volta che Clara rileggeva quella lettera ed ogni volta che la rileggeva sentiva sempre più pungente una spina nel cuore. Povera Clara, si era sacrificata!... Dunque non era valsa la sua rinuncia? Enrico era infelice! Non era valso il suo sacrificio! E allora? Perché, perché aveva sacrificato il suo amore? Perché piangeva nella sua solitudine?

Credeva che Enrico amasse sua moglie, perciò si era fatta da parte. Ma ora rileggendo ancora una volta quella lettera, capiva che tutto era stato inutile.

Dopo tanto si svegliò dal suo torpore.

Quanto tempo era rimasta così? Non lo sapeva! Però aveva preso una decisione: doveva farsi odiare da Enrico! Solo in questo modo sarebbe riuscita a dargli, almeno la serenità. Solo così? No, no! Non era possibile. Lei lo amava e se lo aveva perduto una volta non intendeva perderlo una seconda. Dopotutto si era sacrificata, aveva rinunciato, si era fatta da parte lasciandolo alla donna che diceva di amarlo e non era colpa sua se Anna non lo capiva, e si faceva odiare da Enrico; se invece di avvicinarlo a sé, lo allontanava.

Così pensando, pianse. Si asciugò gli occhi, si alzò e sicura si avvicinò al telefono, formò il numero.

- Pronto?... Ah! Sei tu, Rico?... Sì, sono io, Clara!... Come?... Ti aspetto qui, a casa mia.

Non tremava più. Si avviò in camera, doveva ravviarsi i capelli, truccarsi un po'. Un solo pensiero passava nella sua mente: Tra mezzora, Enrico sarà qui, fra mezzora!

 

* * *

 

Era l'alba quando si svegliò. Si guardò attorno, Enrico non c’era! Mentre stava per infilarsi la vestaglia, un foglio di carta scivolò a terra, lo prese e lesse avidamente. Restò muta e intronata, come una statua. Dopo un po' riprese a leggere, aveva paura di non aver capito bene il contenuto.

"Clara, piccola mia. - Diceva il biglietto - Dopo anni di tormenti ho capito quanto mi sia indispensabile l'affetto di mia moglie. Mi tormentavo e ti tormentavo! Però prima che fra noi… prima di distruggere tutta la poesia del nostro amore, voglio scomparire dalla tua vita, come voglio tu scompaia dalla mia. Voglio che del nostro amore grande resti un caro, dolce ricordo, ti dico addio, prima che sia troppo tardi. Ho capito che non si può lottare contro l'amore perché esso è più forte del destino. L'ho capito quando ti ho vista ab-bandonata tra le mie braccia. Allora, anima mia, ho capito che avrei distrutto tutto e non avrei avuto più il coraggio di guardarti negli occhi".

Clara portò il foglio alle labbra, lo baciò, poi in un sussurro:

- Grazie, amore mio! Grazie per aver capito e che tu sia sempre benedetto per la felicità che mi hai dato. - Mentre due grosse lacrime caddero sul foglio ancora aperto tra le mani.

Bromuro Reno

LA VITA DENTRO

LA  VITA  DENTRO

                     Un amore nasce nel momento in cui si sente il bisogno
di prendersi cura di qualcuno,
di donare parte di se ad un’ altra persona,
senza sentirsi obbligati dalle circostanze,
senza seguire rigidi percorsi già tracciati.

Un amore esplode quando due persone diverse,
si incastrano tra loro come tessere di un puzzle,
pretagliate all’ origine,
per trovarsi poi destinate comunque a riunirsi,
formando qualcosa di tangibile.

Un amore culmina quando il pensiero dell’ altro ci porta serenità,
e voglia, o desiderio
di condividere quanto di più nostro, o di più intimo c’ è in noi.

Un amore muore quando è sommerso di parole inutili,
quando queste parole non bastano più
ad esprimere nessun sentimento, nessuna emozione.

Quando il guardarsi significa solo vedersi.
o il parlarsi solo spargere la voce,
casualmente, ingannando il tempo.

Quando il mancarsi,
non ci manca più.

Non ce ne accorgiamo subito
e quando accade, ci rendiamo conto,
amaramente,
di quanto poco amore abbiamo avuto,
rispetto a quello che avremo voluto donare.

Perchè amare qualcuno
è sentirsi la vita dentro;
l’ essere consapevoli di quanto possiamo essere,
di quanto si possa dare
e di ciò che si può diventare...

FIABE DI ITALO CALVINO

FIABE  DI  ITALO  CALVINO Italo Calvino era un signore che amava le fiabe.
Andava in giro per le campagne a cercare le donne più anziane e si faceva raccontare le favole che raccontavano in dialetto ai loro bambini, quelle che avevano ascoltato dalle loro mamme, che a loro volta avevano ascoltato dalle loro mamme e così via, fino alla notte dei tempi.

Di tutte le fiabe trascritte da Calvino, noi abbiamo scelto 2 :


 

IL CONTADINO ASTROLOGO
C’era una volta un re che aveva perduto un anello prezioso. Cerca qua, cerca là, non si trova. Mise fuori un bando che se un astrologo gli sa dire dov’è, lo fa ricco per tutta la vita.
C’era un contadino senza un soldo, che non sapeva né leggere né scrivere, e si chiamava Gàmbara. "Sarà tanto difficile fare l’astrologo? -si disse- Mi ci voglio provare". E andò dal Re.
Il Re lo prese in parola, e lo chiuse a studiare in una stanza. Nella stanza c’era solo un letto e un tavolo con un gran libraccio d’astrologia, e penna carta e calamaio. Gambara si sedette al tavolo e cominciò a scartabellare il libro senza capirci niente e a farci dei segni con la penna. Siccome non sapeva scrivere, venivano fuori dei segni ben strani, e i servi che entravano due volte al giorno a portarglì da mangiare, si fecero l’idea che fosse un astrologo molto sapiente.
Questi servi erano stati loro a rubare l’anello, e con la coscienza sporca che avevano, quelle occhiatacce che loro rivolgeva Gambara ogni volta che entravano, per darsi aria d’uomo d’autorità, parevano loro occhiate di sospetto. Cominciarono ad aver paura d’essere scoperti e, non la finivano più con le riverenze, le attenzioni: "Si, signor astrologo! Comandi, signor astrologo!"
Gambara, che astrologo non era, ma contadino, e perciò malizioso, subito aveva pensato che i servi dovessero saperne qualcosa dell’anello. E pensò di farli cascare in un inganno.
Un giorno, all’ora in cui gli portavano il pranzo, si nascose sotto il letto. Entrò il primo dei servi e non vide nessuno. Di sotto il letto Gambara disse forte: - E uno!- il servo lasciò il piatto e si ritirò spaventato. Entrò il secondo servo, e sentì quella voce che pareva venisse di sotto terra: - E due! - e scappò via anche lui. Entrò il terzo, - E tre! -
I servi si consultarono: - Ormai siamo scoperti, se l’astrologo ci accusa al Re, siamo spacciati. Cosi decisero d’andare dall’astrologo e confessargli il furto.
- Noi siamo povera gente, - gli fecero, - e se dite al Re quello che avete scoperto, siamo perduti. Eccovi questa borsa d’oro: vi preghiamo di non tradirci.
Gambara prese la borsa e disse: - lo non vi tradirò, però voi fate quel che vi dico. Prendete l’anello e fatelo inghiottire a quel tacchino che c’è laggiù in cortile. Poi lasciate fare a me.
Il giorno dopo Gambara si presentò al Re e gli disse che dopo lunghi studi era riuscito a sapere dov’era l’anello.
- E dov’è? –
- L’ha inghiottito un tacchino. -
Fu sventrato il tacchino e si trovò l’anello. Il Re colmò di ricchezze l’astrologo e diede un pranzo in suo onore, con tutti i Conti, i Marchesi, i Baroni e Grandi del Regno.
Fra le tante pietanze fu portato in tavola un piatto di gamberi. Bisogna sapere che in quel paese non si conoscevano i gamberi e quella era la prima volta che se ne vedevano, regalo di un re d’altro paese.
- Tu che sei astrologo, - disse il Re al contadino, - dovresti sapermi dire come si chiamano questi che sono qui nel piatto. Il poveretto di bestie così non ne aveva maiviste né sentite nominare. E disse tra sé, a mezza voce: - Ah, Gambara, Gambara… sei finito male! –
Bravo! - disse il Re che non sapeva il vero nome del contadino. - Hai indovinato: quello è il nome: gamberi! Sei il più grande astrologo dei mondo. -

 

IL PRINCIPE CHE SPOSO’ UNA RANA

C’era una volta un Re che aveva tre figli in età da prender moglie. Perché non sorgessero rivalità sulla scelta delle tre spose, disse: - Tirate con la fionda più lontano che potete: dove cadrà la pietra là prenderete moglie.
I tre figli presero le fionde e tirarono. Il più grande tirò e la pietra arrivo sul tetto di un Forno ed egli ebbe la fornaia.
Il secondo tirò e la pietra arrivò alla casa di una tessitrice. Al più piccino la pietra cascò in un fosso.

Appena tirato ognuno correva a portare l’anello alla fidanzata.
Il più grande trovò una giovinotta bella soffice come una focaccia, il mezzano una pallidina, fina come un filo, e il più piccino, guarda guarda in quel fosso, non ci trovò che una rana.

Tornarono dal Re a dire delle loro fidanzate.
"Ora - disse il Re - chi ha la sposa migliore erediterà il regno. Facciamo le prove" e diede a ognuno della canapa perché gliela riportassero di lì a tre giorni filata dalle fidanzate, per vedere chi filava meglio.
I figli andarono delle fidanzate e si raccomandarono che filassero a puntino; e il più piccolo tutto mortificato, con quella canapa in mano, se ne andò sul ciglio del fosso e si mise a chiamare:


- Rana, rana!
- Chi mi chiama?
-L’amor tuo che poco t’ama.
- Se non m’ama , m’amerà
quando bella mi vedrà.

E la rana salto fuori dall’acqua su una foglia.
Il figlio del Re le diede la canapa e disse che sarebbe ripassato a prenderla filata dopo tre giorni.

5 Dopo tre giorni i fratelli maggiori corsero tutti ansiosi dalla fornaia e dalla tessitrice a ritirare la canapa.
La fornaia aveva fatto un bel lavoro, ma la tessitrice - era il suo mestiere - l’aveva filata che pareva seta.

E il più piccino? Andò al fosso:


- Rana, rana!
- Chi mi chiama?
- L’amor tuo che poco t’ama.
- Se non m’ama , m’amerà
quando bella mi vedrà.

Saltò su una foglia e aveva in bocca una noce.
Lui si vergognava un po’ di andare dal padre con una noce mentre i fratelli avevano portato la canapa filata; ma si fecero coraggio e andò.

Il Re che aveva già guardato per dritto e per traverso il lavoro della fornaia e della tessitrice, aperse la noce del più piccino, e intanto i fratelli sghignazzavano.

Aperta la noce ne venne fuori una tela così fina che pareva tela di ragno, e tira tira, spiega spiega, non finiva mai , e tutta la sala del trono ne era invasa.
"Ma questa tela non finisce mai!" disse il Re, e appena dette queste parole la tela finì.
Il padre, a quest’idea che una rana diventasse regina, non voleva rassegnarsi.
Erano nati tre cuccioli alla sua cagna da caccia preferita, e li diede ai tre figli: "Portateli alle vostre fidanzate e tornerete a prenderli tra un mese: chi l’avrà allevato meglio sarà regina".

Dopo un mese si vide che il cane della fornaia era diventato un molosso grande e grosso, perché il pane non gli era mancato; quella della tessitrice, tenuto più a stecchetto, era venuto un famelico mastino. Il più piccino arrivò con una cassettina, il Re aperse la cassettina e ne uscì un barboncino infiocchettato, pettinato, profumato, che stava ritto sulle zampe di dietro e sapeva fare gli esercizi militari e far di conto.
E il Re disse: "Non c’è dubbio; sarà re mio figlio minore e la rana sarà regina".

Furono stabilite le nozze, tutti e tre i fratelli lo stesso giorno.
I fratelli maggiori andarono a prendere le spose con carrozze infiorate tirate da quattro cavalli, e le spose salirono tutte cariche di piume e di gioielli.

Il più piccino andò al fosso, e la rana l’aspettava in una carrozza fatta d’una foglia di fico tirata da quattro lumache.
Presero ad andare: lui andava avanti, e le lumache lo seguivano tirando la foglia con la rana. Ogni tanto si fermava ad aspettare, e una volta si addormentò.

Quando si svegliò, gli s’era fermata davanti una carrozza d’oro, imbottita di velluto, con due cavalli bianchi e dentro c’era una ragazza bella come il sole con un abito verde smeraldo.
"Chi siete?" disse il figlio minore.
"Sono la rana", e siccome lui non ci voleva credere, la ragazza aperse uno scrigno dove c’era la foglia di fico, la pelle della rana e quattro gusci di lumaca.
"Ero una Principessa trasformata in rana, solo se un figlio di Re acconsentiva a sposarmi senza sapere che ero bella avrei ripreso la forma umana."

Il Re fu tutto contento e ai figli maggiori che si rodevano d’invidia disse che chi non era neanche capace di scegliere la moglie non meritava la Corona.
Re e regina diventarono il più piccino e la sua sposa.

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